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Cara Gabriella,
ottima l’idea di quello scambio di lettere fra i critici (e chiarissimi docenti) Elvio Guagnini e Oddone Longo a commento del tuo recente libro di versi Lo specchio in mano. Il loro dialogo invita – inviterà – i tuoi lettori a meditare, lungo la linea di dotta raffinatezza da loro suggerita, sulle tue raffigurazioni liriche frantumate e semplici, così aderenti ai moti improvvisi di una vivace immaginazione e capaci di accostamenti inediti fra visioni e concetti. Ricordo che, a questo proposito, durante la presentazione della raccolta precedente, L’abbraccio dei colori, quando toccò a me parlarne, mi capitò di richiamare istintivamente il grande esempio di Emily Dickinson, ben presente alla mia memoria di americanista.

In particolare le due lettere invogliano ad affrontare il tema – oggi molto dibattuto – del dilagare della scrittura poetica o pseudopoetica. In realtà nella mia ormai abbastanza lunga esistenza, ho assistito al crescere esponenziale del numero di plaquettes, volumetti, libelli, premi, convegni, festival di poesia in parallelo con il diffondersi dell’istruzione. Personalmente non mi soffermo a chiedere quanto ciò sia opportuno o sensato: ciò che mi colpisce è la qualità del fatto – del fenomeno – che si evidenzia come tendenza o aspirazione naturale dell’essere umano, non appena il grado di acculturazione gli permetta di affrontare il tentativo di questa forma espressiva.

Vi sono del resto popolazioni non così altamente civilizzate del vicino Est europeo per cui è uso spontaneistico esprimersi sporadicamente in versi, parlando – cioè prima ancora di arrivare alla scrittura – con rime o assonanze e ritmi acconci quando l’occasione o l’estro del momento a ciò inviti: quasi una sorta di giocoso ‘parlar magico’ o almeno ‘fiabesco’.

La poesia è, in fondo, paragonabile al canto che abitualmente sorgeva durante il lavoro, non ancora aiutato o addirittura sostituito dalle macchine, dei contadini di un tempo. Era effusione di vitalità e insieme ricerca di armonia. E anche consolazione, o senso di più completa intercomunicazione e appartenenza al gruppo. Non per nulla i due post-fatori, se così li possiamo definire, concordano sull’opportunità di leggere ad alta voce i versi. E non dimentichiamo che, nell’antichità greca e romana, venivano cantati!

Anche questo avvicina la pagina in versi, e sia pure quando primitiva e ingenua, all’esigenza insopprimibile del coro come si verifica ancora oggi non solo durante qualche lavoro di gruppo, ma durante una marcia, o una sosta di riposo, o al termine di una qualunque cerimonia o magari solo di un pasto campestre consumato insieme.

Per questo a mio vedere è futile chiedersi se la poesia sia morta o debba in futuro morire. In effetti è parte degli istinti umani, nella sua base pre-conscia.

In quanto ai risultati estetici e alle previsioni di durata dell’opera nel tempo, ah, qui comincia la fatica, il discernimento dei critici! Ma la valutazione esce allora dal mero discorso antropologico… Un’ultima osservazione sul gaio surrealismo naif di colori e forme delle tue illustrazioni: per me una piacevole sorpresa a cominciare dalla copertina.

Con affettuoso augurio di sempre migliori risultati

tua Marilla Battilana

Recensione
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