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La poesia negli Stati Uniti d'America

12. Per chiudere il Novecento

E’ arrivato dunque il momento di completare (si fa’ per dire) il quadro promesso all’inizio: l’immagine di questa grande produzione nota ai più attualmente nel nostro paese soprattutto per gli eccessi verbali e la protesta dei beat, o per alcune poetesse ribelli a ogni pressione troppo borghese, da Emily Dickinson a Sylvia Plath. Se, cominciando a presentarne alcuni dei migliori esempi a partire dalla prima opera pubblicata nel 1650, sarò riuscita a sfatare questa leggenda di modernità priva di radici autoctone, il mio lavoro non sarà stato inutile presso molti lettori che solo casualmente si accostano alla cultura americana. E’ vero che la figura di Pound , la sua azione, il suo esempio incombono su tutto il secolo e oltre. E’ altrettanto vero che altri meritano di essere ricordati. Ho già accennato a quegli autori cosiddetti whitmaniani, da Carl Sandburg a Edgar Lee Masters che ebbero, in vita, maggiore successo del maestro, popolarizzandone la lezione di libertà espressiva e di rinnovamento dei temi in senso più realistico e democratico.

Robert Frost (1864-1963) è la voce che pongo volentieri all’inizio di questa carrellata conclusiva. Nato in California, la sua esistenza e la sua opera furono legate poi a quella East Coast di cui aveva assorbito così bene tradizione letteraria (Emerson, Thoreau; William James, George Santayana suoi docenti a Harvard) e linguaggio colloquiale per renderne in versi assai personali ma lontani da ogni avventurismo sperimentale il vario fascino di ambienti e sfondi naturali. Naturalezza e classicità sono termini che ricorrono spesso nei commenti alla sua opera, unitamente a osservazioni sulle valenze metaforiche, drammatiche o perfino sottilmente tragiche di fatti, personaggi o situazioni in apparenza semplici da lui evocati. Il tutto scevro da sentimentalismi e sovente soffuso da ironia a volte assai amara. A suo modo è un poeta di ‘Fuoco e ghiaccio’ che è pure il titolo di una sua breve lirica abbastanza esemplificativa:

Some say the world will end in fire,
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if it had to perish twice,
I think I know enough of hate
To say that for destruction ice
Is also great
And would suffice.

(Dicono alcuni che il mondo finirà per fuoco, | altri per ghiaccio. | Per quanto so del desiderio | sto con quelli che propendono per il fuoco. | Ma se dovesse perire due volte, | Credo di sapere abbastanza dell’odio | per dire che a fin di distruzione il ghiaccio | è anche formidabile | e basterebbe).

 

 
Robert Frost

Wallace Stevens

Filosofo, esteta, dandy della poesia è stato definito Wallace Stevens (1878-1955) per la sua costante ricerca di perfezione e perfino preziosità formale, il che appare soprattutto in certe poesie sulla poesia sparse nella sua produzione attraverso gli anni. L’autore sente il vuoto lasciato dalla fede e lo sostituisce con la fiducia nella propria arte che è insieme ‘narrazione suprema’ (già Baudelaire l’aveva definita la plus haute fiction) e ‘una cosa sola con la realtà’. Indicativi sono i titoli medesimi delle sue raccolte di versi, quali Harmonium (1923) oppure Ideas of Order (1935), The Man with the Blue Guitar and Other Poems (1937). Sebbene in seguito Stevens si sia accostato pure a temi più realistici per influsso della Grande Depressione, la parte iniziale della sua opera è di solito considerata la migliore.

Grande maestro e poeta esemplarmente americano è considerato oggi William Carlos Williams, autore anche di racconti e romanzi e di una Autobiography in prosa assai significativa per rintracciare il suo sviluppo. Amico di Pound ed estimatore di T.S.Eliot – sul quale ultimo non ci soffermiamo lasciandolo alla letteratura e alla patria inglesi che si scelse – superò l’iniziale imagismo e la stessa influenza eliotiana in nome di una poesia ‘tutta cose’ che esprimeva il valore della vita fin nella quotidianità e contrapponeva alla ‘terra desolata’ la vitalità di espressione e di intenti di Spring and All, La primavera e tutto, (1923). La sua tecnica è l’oggettivismo, in base al quale opera una combinazione o montaggio di immagini a incastro, in parte derivato dal cubismo (era anche pittore e apprezzava l’opera di Picasso) che gli permetteva di presentare i vari aspetti della contemporaneità americana, pur senza dimenticare il passato. Il poema Paterson si svolge in questo senso, prendendo il titolo dalla cittadina del New Jersey dove trascorse la sua esistenza di medico-scrittore, attento ai più deboli e oppressi, dopo un periodo giovanile di utilissimi viaggi e contatti con artisti europei e americani espatriati. La sua lirica più celebre, The Red Wheelbarrow, (La carriola rossa) un po’ come nel caso del nostro Ungaretti, è di una brevità ed efficacia che non perdono il loro smalto col tempo:

so much depends
upon
a red wheel
barrow

glazed with rain
water

beside the white
chickens.

(tanto dipende | da | una carriola | rossa || lucida di acqua | piovana || accanto a galline | bianche).

Invece nel novero degli espatriati è l’imagista Hilda Doolittle (l’amata H.D. di Ezra Pound, che avrebbe voluto sposarla) vista oggi come figura minore, ma di lei, vale la pena di dare notizia per questo gentile collegamento con Pound – che le fece pubblicare i primi versi sulla rivista Poetry – e per certa sua vocazione alla classicità pur nella sperimentazione.

     
William Carlos Williams

Hilda Doolittle

Marianne Moore

Di superiore validità è Marianne Moore (1887-1972) amica di H.D. che conobbe al Bryn Mawr College, famosa università allora soltanto femminile. Visse a New York. Portò alla poesia autocontrollo della forma, capacità di attenta osservazione soprattutto di animali spesso marini o esotici (aveva frequentato corsi di biologia all’università). Si nutrì delle pagine di grandi prosatori e narratori inglesi come anche di autori classici quali Cesare o Senofonte: più che nei poeti di ogni tempo, vi trovava il gusto per il dettaglio che la caratterizza contribuendo alla vividezza delle sue rappresentazioni. Emblematica la lirica ‘The jellyfish’ (La medusa):

Visible, invisible,
            a fluctuating charm
an amber-tinctured amethyst
            inhabits it, your arm
approaches and it opens
            and it closes; you had meant
to catch it and it quivers;
            you abandon your intent.

(Visibile, invisibile, | incanto fluttuante | un’ametista sfumata d’ambra | l’abita, il tuo braccio | si accosta e si apre | e si chiude; intendevi | afferrarla e lei vibra; | abbandoni il tuo intento).

John Crowe Ransom (1888-1974), docente alla Vanderbilt University quando ancora non era invalsa la moda per i poeti di aggregarsi a qualche università o college per fronteggiare le difficoltà elementari della vita – il che avvenne nel periodo della Depressione degli Anni Trenta – si rivelò presto come il più influente dei ‘New Critics’ operanti in America nonché esponente di punta del Southern Agrarianism (gruppo sudista conservatore) e il migliore fra i poeti degli Stati del Sud, da cui pure provenivano Allen Tate e Robert Penn Warren. Fondatore della Kenyon Review, ebbe larga influenza attraverso la sua saggistica e teorizzò sapientemente la propria concezione della scrittura lirica: mirava alla fusione tradizionale di effetto etico ed effetto estetico e reclamava per la poesia uno status diverso e superiore a quello delle scienze nei riguardi della conoscenza in quanto poteva rivelare molto di più che non il pensiero razionale e scientifico in virtù di valenze metaforiche e pregnanza simbolica di significato. Enfatizzava l’aspetto verbale e formale a preferenza dei contenuti storici o filosofici. Convinzioni condivise, appunto, dai new critics.

 

 
John Crowe Ransom

Archibald MacLeish

Il contemporaneo Archibald MacLeish (1892-1982) è notevole per il tentativo, a volte pienamente riuscito sul piano del dettato, di conciliare moderni stili e modi, quali definiti da T.S.Eliot ed Ezra Pound, con le esigenze di testimonianza civile e pubblica sulle quali aveva insistito Whitman nel delineare la missione del poeta in una democrazia. Non profondamente originale, ebbe una prominenza indubbia nell’esprimersi su questioni e problemi di carattere sociale o nel caso di opportunità celebrative. Il che gli procurò notevoli opportunità di carriera.

Ben diverso il caso di E.E.Cummings (1894-1962) – che amava firmarsi in tutte minuscole e.e.cummings. Con il suo disprezzo per la burocrazia, la sua tendenza a dire – e scrivere – ciò che pensava e la sua volontà di rinnovamento dell’espressione poetica portata fin sul piano tipografico. Per lui si potrebbe cominciare a parlare di ‘poesia concreta’ per il valore che conferiva a volte alla disposizione stessa delle parole e lettere sulla pagina, come si può osservare ad esempio in “Buffalo Bill’s”:

Buffalo Bill’s
defunct
who used to
ride a watersmooth-silver stallion
and break onetwothreefourfive pigeonsjustlikethat
                                                                         Jesus
he was a handsome man
                                        and what I want to know is
how do you like your blueeyed boy

Mister Death (1920, 1923)

(Buffalo Bill è | defunto | che usava montare uno stallone | argentolisciocomeacqua | e centrare unoduetrequattro piccionicomeniente | Gesù | era un bell’uomo | e quel che voglio sapere è | quanto ti piace il tuo ragazzo dagli occhi blu | Signora Morte).

E’ un testo da cui si desume la sua concezione della poesia anche come divertissement attraverso l’inventiva, che si fece con gli anni sempre più disinvolta (morì nel 1962), di schemi non solo metrici ma tipografici, invenzione di lessemi semplici o compositi, adozione di ritmi che ricalcavano spesso modi non solo colloquiali ma gergali. Dietro l’apparenza sbarazzina spesso si nasconde comunque – come nell’esempio riportato – un fondo di ironica tristezza. O magari di sarcasmo, o di critica etica e sociale (famosa la lirica “the Cambridge ladies who live in furnished souls”).

 

 
E.E. Cummings

Hart Crane

Hart Crane, dalla breve vita (1899-1932) è una insolita figura americana di maudit sia per vicende familiari – l’ostilità del padre e la discordia fra i genitori – che lo segnarono negativamente fino a condurlo all’alcol, alla droga, alla omosessualità e infine al suicidio. La sua esigua produzione, culminante nel poemetto The Bridge (Il ponte, ossìa il ponte di Brooklyn) fiorisce all’insegna della lezione eliotiana e poundiana, per cui la poesia, testimonianza concreta dell’experiri e del conoscere doveva usare un linguaggio connotativo e metaforico di massima pregnanza, il che rende il suo dettato di non facile lettura. In The Bridge celebra, opponendosi alla disperazione della eliotiana ‘terra desolata’, un mito tipicamente americano che vede un futuro positivo e prospero per l’uomo nel rapporto con la macchina: prevale dunque l’ottimismo di Whitman. Il ponte di Brooklyn è segno di un tale futuro, anche se una disamina approfondita smentisce in parte questa fiducia .

E c’è la nuova corrente, destinata a infoltirsi, costituita dagli autori negri: Langston Hughes (1902-1967) ha una propria innegabile statura letteraria e umana, quando rievoca e rivendica, contro tutti gli affronti e le ingiustizie di cui la razza negra era ancora vittima al suo tempo in America, l’antichità della sua stirpe, in The Negro Speaks of Rivers (Il negro parla di fiumi):

I’ve known rivers:
I’ve known rivers ancient as the world and older than the flow of human blood in human veins.

My soul has grown deep like the rivers.

I bathed in the Euphrates when dawns were young.
I built my hut near the Congo and it lulled me to sleep,
I looked upon the Nile and raised the pyramids above it.
I heard the singing of the Mississippi when Abe Lincoln went down to New Orleans, and I’ve seen its muddy
                                                                                                     bosom turn all golden in the sunset.

I’ve known rivers:
Ancient, dusky rivers.

My soul has grown deep like the rivers. (1920,1926)

(Ne ho conosciuto di fiumi: | ho conosciuto fiumi vecchi come il mondo e più antichi del flusso di sangue umano in vene umane.|| La mia anima è divenuta profonda come i fiumi. || Mi sono bagnato nell’Eufrate quando le aurore erano giovani. | Ho costruito la mia capanna presso il Congo che ha cullato il mio sonno, | ho gettato lo sguardo sul Nilo e innalzato piramidi sulla riva. | Ho ascoltato il canto del Mississippi quando Abe Lincoln andò giù a New Orleans, e ho veduto il suo grembo fangoso farsi d’oro nel tramonto. || Ne ho conosciuto di fiumi: | antichi fiumi cupi. || La mia anima è divenuta profonda come i fiumi).

L’andamento è quello accorato e solenne di uno spiritual, di un gospel song…Si può notare anche da questa sola composizione come la poesia afro-americana sia forte di un senso di dignità e di protesta più o meno esplicita che ne intensifica l’umanità spesso dolente: di fatto è stato più volte osservato come la produzione lirica dei negri, e per altro verso molta poesia femminile del Novecento, possiedano motivazioni cogenti di ribellione, aspirazioni ideali di cui altra poesia è priva, se non in termini di generico lamento per l’inevitabile condizione umana. Continuarono su questa linea autori negri come Gwendolyn Brooks e LeRoi Jones (Amiri Baraka il nome da lui ‘ritrovato’ in segno di indipendenza dal mondo dei bianchi). In minor numero scelsero un modo espressivo anodino, come ad esempio il raffinato Countee Cullen.

Intanto si era manifestato il fenomeno beat: non solo stile poetico ma soprattutto, forse, stile di vita, refrattario a materialismo e capitalismo e ai giudizi o pregiudizi borghesi del vecchio cuore puritano d’America. Mentre John Berryman (1914-1972) e Robert Lowell (1917-1977) tenevano alto il vessillo della poesia anglo-americana nella scia che possiamo ancora definire tradizionale per concetti e forme -- miracolo di reinterpretazione il poemetto Homage to Mrs. Bradstreet (1953) del primo e tenace la memoria delle origini seicentesche pur nell’esplicare i propri conflitti interiori nel secondo – Lawrence Ferlinghetti (n. 1919), Allen Ginsberg (1926-1997), Jack Kerouac (1922-1969), Gregory Corso (n. 1930) e i loro seguaci o imitatori procedevano con denunce e dissacrazioni usando un linguaggio spesso libero fino a essere giudicato licenzioso o offensivo. Formalmente si rifanno al verso parlato di W.C.Williams e, più indietro, di Whitman. Concepiscono la poesia come accompagnata da ritmi jazz o comunque musicali, in presa diretta con un pubblico. L’incipit del celebre Howl (Urlo) di Ginsberg è rimasto emblematico (“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate isteriche nude | trascinarsi per strade negre all’alba cercando con rabbia una droga,ecc. ). Questi ‘poeti contro’ in ogni senso hanno segnato una svolta epocale: ben trasmessa in italiano da una corposa antologia a cura di Fernanda Pivano. Portavano all’estremo una rivoluzione iniziata su un piano ancora consapevolmente intellettuale per quanto anti-eliotiano dai Black Mountains Poets fra cui spiccano Charles Olson, Robert Duncan, Robert Creeley, la poetessa Denise Levertov.

     
Lawrence Ferlinghetti

Allen Ginsberg

Jack Kerouac

Alle poetesse vorrei lasciare qui l’ultima parola – visto che proprio una donna, Anne Bradstreet, disse la prima nel Seicento puritano – ricordando almeno i nomi di Anne Sexton, Adrienne Rich, Sylvia Plath. E concludendo con versi che possono far pensare a situazioni attuali, presi da “Parable of the Hostages” di Louise Gluck (n. 1943), recente Premio Pulitzer per la Poesia:

The Greeks are sitting on the beach
wondering what to do when the war ends. No one
wants to go home . . . . . . . . . . . .
 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .no one believed
it could take ten years to go back to Ithaca;
no one foresaw the decade of insoluble dilemmas – oh unanswerable
affliction of the human heart: how to divide
the world’s beauty into acceptable
and unacceptable loves! On the shores of Troy,
how could the Greeks know
they were hostages already . . . . . .

(I greci seduti sulla spiaggia | si chiedono cosa fare alla fine della guerra. Nessuno | vuole tornare in patria | . . . . . | nessuno credeva | che potevano volerci dieci anni per tornare a Itaca; | nessuno prevedeva il decennio di dilemmi insolubili – oh afflizione | senza risposta del cuore umano: come dividere | la bellezza del mondo in amori accettabili | e inaccettabili! Sulle rive troiane | come potevano sapere i greci | di essere già ostaggi . . . )

Anche questa voce viene dal New England. Ma ormai gli orizzonti dell’America e della sua poesia si sono ampliati fino all’altro oceano… Dai pressi di Santa Fe (N.Mex.) Marta Knobloch, autrice meno celebre ma già nota in Italia (Poesia, Crocetti, ottobre 2000), sembra rispondere, alludendo ad altre e non terrestri frontiere, nella lirica “Ammonite”di cui cito, per brevità, la sola traduzione:

Pellegrina da un mare
morto da millenni,
paradigma fatto pietra,
il tuo intaglio descrive la spirale
delle oscure volute del cervello,
l’antro, formato da onde su onde, d’un orecchio,
il vortice di ogni polpastrello.

Che cosa ti ha condotto, roteando,
dal gorgo delle galassie,
dove luce e tempo non sono che singolarità,
a essere girandola nella notte stellata di Van Gogh,
a orbitare la rosa di Dante?

Marilla Battilana – Nov. 2004

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